“Car Crash” è l’ingresso dirompente e violento di un prodotto tecnologico e moderno nella storia dell’arte del ventesimo secolo.
Le serigrafie di Wahrol dalle tinte green, orange e silver utilizzano un linguaggio pubblicitario, rassicurante, ripetitivo per descrivere invece una tragedia nuova, mai rappresentata, che da quel momento in poi contaminerà l’immaginario collettivo.
Nessuna partecipazione emotiva, nessuna traccia empatica da parte dell’artista, assenza di atteggiamento pregiudiziale e di giudizio.
“Car Crash” è la replica ipnotica di una immagine cruenta e drammatica, che produce però un’assuefazione visiva e ne svuota il significato.
Già nel 1955 il filosofo e sociologo tedesco della scuola di Francoforte Herbert Marcuse nel Saggio “Eros e Civiltà” aveva espresso tali preoccupazioni e oscuri presagi. Un attacco sferrato alla civiltà dei consumi, all’ordine totalitario, che tutto ingloba, fagocita, anche le forze e le voci più dissidenti. Ma se in “Eros e Civiltà” l’Arte e l’Eros appaiono come salvezze utopiche per redimere l’umanità dalla produzione e dal consumo, nel saggio pubblicato successivamente nel 1964 “L’Uomo ad una Dimensione” (un anno dopo la comparsa di Car Crash-1963), Marcuse lancia invece un urlo disperato alla Munch, per denunciare la perdita della coscienza infelice, desiderante, trascendente, la perdita della multidimensione umana, la cui identità e libertà sono ridotte soltanto alla scelta e consumo di prodotti, poiché ogni cosa è un prodotto da consumare.
Ebbene sì, ogni cosa è un prodotto da consumare, anche i luoghi deputati all’arte, relegati a mero consumo, svago, ghiotte occasioni mondane, riserva energetica del weekend, carburante utile alla macchina di produzione.
Urge fortemente il bisogno di riappropriarci del sublime, del trascendente, di rivendicare la nostra coscienza infelice, di recuperare il rapporto tra uomo e natura, inventando nuovi riti collettivi. L’idea del Sacro, avulsa da qualsiasi stereotipo religioso salvifico, il concetto di Inutilità dell’Arte, svincolata da qualsiasi logica di produzione e di consumo, può essere forse una delle strade possibili da percorrere e riscoprire.
In questo delirio onnipotente tecnologico di inizio secolo, torna utile e preziosa la lezione del Maestro sciamano tedesco Joseph Beuys.
L’arte indissolubilmente legata alla Vita, poiché il vivere stesso non può fare a meno della sperimentazione e creazione, ovvero dell’Arte.
La Piantumazione di 14 mila alberi (Progetto difesa della Natura- 1982), di 14 mila sculture viventi, bene esprime il rito collettivo artistico, la partecipazione creativa della comunità, bene descrive il ruolo che può avere l’artista in questo XXI secolo.
“Di Arte e di Vita” è un primo tentativo di dibattito e di confronto dialettico in questa direzione, in questo tempo pandemico di privazioni e riflessioni.
Nel silenzio assordante che ha invaso le nostre città fantasma e le nostre vite, in questa bolla mediatica densamente popolata, l’Arte ha continuato sottotraccia a pulsare, a muoversi, a espandersi e invadere nuovi spazi, nuovi codici espressivi, nuove capacità di resistenza e di esistenza, fluendo in questo perenne mutamento che è la Vita.
–Giovanni Maria Adelfio